Il ricordo della tragedia di “Lupo 84”
Amore, rispetto, disciplina e pratica sono quattro doti fondamentali per chi vive nel bosco e per il bosco. Me lo spiega bene Lorenzo Travaglini, 84 anni, boscaiolo e molto, molto di più. Pelle liscia, denti bianchissimi, sorriso dolce e compiaciuto di chi sa il fatto suo ed è fiero delle decisioni prese coscienziosamente nel corso della sua vita. “Mai un rimpianto, mai un attimo di arresa”, mi dice lapidario come in tutte le altre sue risposte, che immagino facilmente convertibili in piccoli aforismi che andrebbero tanto di moda sui social. Scherzi a parte, Lorenzo è una fonte inesauribile di esperienze, idee, storie e racconti. Faccio quasi fatica ad annotarli tutti. Il più famoso sicuramente risale a più di quarant’anni fa. Brillano gli occhi quando me ne parla.
“Era un tardo pomeriggio del 10 luglio 1982. Mentre tentavo di spegnere un incendio a qualche centinaio di metri di distanza da casa, si schiantò sul monte accanto il famoso aereo “Lupo 84””. Si riferisce al tragico incidente aereo avvenuto durante l’operazione antincendio, sulle pendici del monte di San Michele (nei pressi di Lucolena – Greve in Chianti). Era un Hercules G222 Mass “Lupo 84” del 98º Gruppo della 46esima Brigata Aerea di Pisa, sul quale persero la vita tutti i quattro componenti dell’equipaggio.
“Mi trovavo insieme a Loris e Luciano, i miei fratelli. Lo vedemmo planare poco sopra le nostre teste e pensai: se quell’aereo continua così, finisce nella montagna! E purtroppo, pochi secondi dopo, la mia paura si avverò con un forte boato e un’enorme fiammata. Ho avuto il terrore che fosse caduto sulle nostre case, dove vivevano i nostri familiari.
Con il cuore in gola presi il trattore per risalire velocemente. Quando arrivai mi resi conto che l’aereo era caduto poco più in alto rispetto alle
nostre abitazioni. Cercammo di portare immediatamente soccorso, senza sapere né a chi né come. Nell’urto il velivolo si era spaccato in due, la carlinga era stata spinta parecchio più avanti rispetto al punto di impatto. Provai ad avvicinarmi ai resti del velivolo, ma fui fermato da un’esplosione. Capii subito che non ci sarebbe stato più niente da fare per gli aviatori. Erano scoppiate le bombole di ossigeno in dotazione all’aereo militare”.
Per venti giorni la famiglia Travaglini fu il punto di riferimento per i militari e le autorità intervenute sul luogo dell’incidente: una parte della casa divenne la base delle operazioni, e a tutti fu garantito vitto e alloggio. Tutti i mezzi agricoli dell’azienda lavorarono giorni e notti senza sosta per recuperare i resti dei piloti e dell’aereo. I Travaglini non vollero mai percepire il riconoscimento offerto dallo Stato Maggiore.
“Certo! L’abbiamo fatto esclusivamente per spirito umanitario, non per soldi”, mi dice incisivo. Da quel giorno è nato un rapporto speciale tra l’Aeronautica e la sua famiglia, anche perché, subito dopo, decise di avviare (inizialmente a sue spese, in seguito grazie al contributo della Regione Toscana e del Comune di Greve), la costruzione di un monumento nel luogo in cui erano stati riuniti i resti mortali dell’equipaggio.
Inoltre, dal 1982, ogni mattina del 10 luglio, si celebra una toccante cerimonia. “Le nostre porte sono aperte esattamente come lo sono state in quei tragici giorni. La nostra accoglienza è rivolta a tutti, soprattutto ai familiari e ai colleghi dei caduti, per celebrarne la memoria”.
Il capoccia e la massaia, vita da mezzadri
Lorenzo parla con orgoglio della sua famiglia. Credo sia doveroso e interessante illustrare come il mondo della mezzadria dal quale provengono i Travaglini sia stato mantenuto. La mezzadria è stata abolita nel 1964, ma ancora oggi la loro realtà viene governata come accadeva per le figure della casa colonica nel sistema mezzadrile del passato: c’erano il “capoccia”, padre del nucleo originario della famiglia, e la “massaia” che, solitamente, era la moglie o, in caso di morte, malattia o vecchiaia, poteva essere la figlia più grande o la moglie del fratello maggiore.
Il capoccia aveva particolari mansioni, poteri e autorità. Trattava con il padrone, firmava i contratti, i conti colonici, decideva le vendite e gli acquisti di bestiame grosso, provvedeva alle spese di un certo impegno. Teneva i rapporti con le altre famiglie anche per ciò che riguardava il comportamento dei membri della propria, i quali chiedevano a lui l’autorizzazione per ogni decisione di rilievo. Era l’esecutore delle direttive del padrone o del fattore, l’organizzatore del lavoro di tutta la famiglia, affidando i vari compiti e sorvegliandone l’esecuzione.
La massaia aveva una sua zona d’autonomia e potere, solo formalmente sottomessa al capoccia, ma capace di far rigare diritto gli uomini di casa. Era una figura istituzionale con specifici compiti e competenze, dirigeva i lavori casalinghi autonomamente dal capoccia, organizzando il lavoro delle altre donne della casa. Aveva un proprio bilancio minore che gestiva nelle entrate e nelle spese. Gli animali erano di sua competenza. Da lei dipendevano tutta l’attività e le vendite di cui i relativi proventi servivano per le spese minute della casa: stoviglie, biancheria, vestiti da lavoro, ornamenti. La costituzione del corredo delle figlie, in parte tessuto al telaio, dipendeva dalla massaia, che era praticamente l’unica ad influire sulla scelta del marito, o nel caso di figli maschi delle mogli.
La cartolina con i saluti di Berlinguer e Pajetta
“Tutte le sere ci riuniamo a cena in una grande tavolata, discutiamo gli aspetti produttivi e quelli della gestione familiare. Pianifichiamo tutto, insomma, come si fa in un Consiglio di Amministrazione, ma l’ultima parola è mia”.
Se tutte le famiglie intorno si sono sfaldate, i Travaglini sono rimasti una vera forza che è cresciuta nel tempo, tanto da avere in carico la gestione dei terreni e delle abitazioni che si trovano intorno a loro.
“Venga, le faccio vedere una cosa”. Mi fa strada e mi porta nella stanza in cui detiene le chiavi. Di tutti. È pazzesco. In un mondo in cui non ci si fida quasi più nemmeno della propria ombra, Lorenzo è il punto di riferimento di tutti. E imperterrito, passa da un argomento all’altro, appassionatamente e dettagliatamente: dalla potatura del bosco, secondo i criteri tradizionali a intervalli di tempo compresi tra i dieci e i quindici anni, alla produzione dei pali; dall’allevamento del bestiame alla vita politica attiva, fino ad arrivare all’invenzione e alla realizzazione, nel 2017, del “cippatino”, ovvero un combustibile legnoso in grado di sostituire il pellet negli impianti di riscaldamento domestico.
“Le famiglie possono così scaldarsi con un combustibile locale, prodotto dalle aziende agro-forestali, a un prezzo concorrenziale rispetto al pellet.
Insomma, quando nessuno credeva nelle potenzialità del bosco, la famiglia Travaglini, da pioniera nei primi anni 2000, ha iniziato a investire nell’economia agro-forestale e oggi detiene un primato di livello nazionale. Siamo stati i primi in Italia a produrre il cippatino e siamo in grado di insacchettare 700 quintali all’anno. La richiesta è notevole, il nostro obiettivo è quello di estendere e ampliare qualità e competitività di un prodotto di nicchia attraverso la realizzazione di impianti innovativi e il confronto continuo con l’Università e le realtà imprenditoriali della Toscana e del nostro paese».
Potrei continuare all’infinito e raccontare altre mirabolanti vicende. Addirittura Enrico Berlinguer e Giancarlo Pajetta hanno riservato a Lorenzo un saluto affettuoso, scritto di loro pugno su una cartolina incorniciata in bella vista, in mezzo a decine di altre foto e articoli appesi sui muri all’ingresso della casa. Ma questa è un’altra bellissima storia che vi auguro di ascoltare direttamente dalla bocca e dagli occhi del caro, laborioso e insostituibile Lorenzo, magari se andaste a trovarlo proprio il 10 di luglio”.