Fibromialgia, un corpo ferito che non sanguina ma che fa male

Paola, la storia di chi resiste al dolore

Paola è tra i tre milioni di italiani che soffrono di fibromialgia, una patologia caratterizzata da dolori cronici diffusi ai muscoli, ai legamenti, ai tendini. Prima di poter dare un nome alla sua malattia ha dovuto sottoporsi a decine di prelievi, analisi ed esami come gastroscopie, risonanze, tac, eccetera. La diagnosi si basa sulla durata di almeno tre mesi delle sintomatologie e sulla presenza del dolore nelle aree chiamate “Tender Points”, ovvero 18 punti sensibili sparsi sul collo, sulla zona cervicale, su quella lombare, all’interno delle braccia e delle ginocchia. La presenza del dolore in almeno 11 di questi punti aiuta nella conferma della valutazione definitiva.

Qui in Toscana ci sono sei centri per la diagnosi e la cura della malattia. Ora ci troviamo a Careggi. Ti va di raccontarmi?«Parlare della malattia non è mai facile. Spesso non trovo le parole perché solo chi prova quello che ho vissuto e che sto vivendo può capire. È terribile dover eludere la pretesa di sorrisi e forza quando dentro sei distrutta, tormentata, smarrita. Ho dovuto attendere nove anni prima che arrivasse una risposta certa e definitiva. È stato un tempo infinito di notti bianche, forti mal di testa, disturbi intestinali, stanchezza cronica, amnesie, capogiri, intolleranza al rumore e alla luce, gambe senza riposo, vertigini, mancanza di concentrazione, ansia, confusione, dolore agli arti, depressione».
Un lungo elenco di disagi e disfunzioni di un corpo ferito che non sanguina, ma che fa male. Ho letto che la causa sembra essere correlata a un trauma psicologico.
«Più stai male in un ambiente, più il corpo ne risente; più non ti senti bene psicologicamente, più il corpo accusa. Per noi è palese. Inizialmente davo la colpa al lavoro debilitante che facevo: passavo l’intera giornata nei magazzini a caricare e scaricare pacchi pesantissimi. Tornavo a casa distrutta. Ho cambiato lavoro, sono diventata segretaria in uno studio privato, ma non è mutato nulla. Dopo qualche mese sono stata ricoverata qui perché il mio corpo ha smesso di rispondere ai comandi. Ora seguo un approccio terapeutico che prevede sia l’utilizzo di farmaci (analgesici, miorilassanti e antidepressivi) che interventi comportamentali. Ho modificato nuovamente il mio stile di vita: ho migliorato la qualità del sonno, controllo il peso corporeo e mantengo un’attività fisica regolare. Ma non ho ancora trovato una soluzione al problema lavorativo. Tornare in studio dopo le dimissioni dall’ospedale non è stato possibile, nessuno mi è venuto incontro ed è venuta a mancare la serenità tra i colleghi. Mi sono dovuta licenziare perché non sono più riuscita a reggere il peso della situazione. Ora sono senza stipendio, non è facile.».
Aggiungerei che oltre il danno, la beffa: la fibromialgia non è inserita nei LEA (Livelli essenziali di assistenza) e non è altresì stata riconosciuta come patologia cronica invalidante per la quale sia prevista una specifica esenzione per chi ne è affetto. Come fai?
«A volte piango tanto da finire tutte le lacrime, fino a che non arrivo a una specie di tranquilla tristezza, una sorta di calma rassegnata che mi porta a convincermi che non ho vie d’uscita, ma sono forte. Troverò un modo».
Che consiglio dai a chi soffre il tuo male?
«Di non lasciarsi sopraffare dal panico, di mantenere i nervi saldi, di rivolgersi agli specialisti, trovare un bravo reumatologo. La chiave è avere tanta pazienza. Non bisogna lasciarsi andare, è assolutamente necessario parlare con un bravo psicoterapeuta, non lasciare niente al caso, farsi curare in tutti i modi possibili. Ci meritiamo di stare bene. Dobbiamo accogliere il nostro dolore, è l’unico modo per imparare a conviverci e a capire come affrontarlo».
Ascoltando storie come la tua dobbiamo imparare a ricordarci sempre di quanto il nostro tempo sia prezioso, per cui non bisogna sprecarlo.
«E che la vita può cambiare da un momento all’altro, senza che tu l’abbia chiesto».