Giuseppe ha perduto la compagna con la quale parlava ogni giorno alla stessa ora. Una diagnosi di bipolarità e una vita per strada. Poi la residenza riabilitativa psichiatrica Ponticelli in Chianti
Quante volte, magari in preda alla rabbia, abbiamo detto: «Ma sei pazza!?», «Psicopatico che non sei altro!», «Ti comporti da schizofrenico!». Ecco, abbiamo sempre commesso un errore. Per capire meglio a cosa mi riferisca, dovreste vedere con i vostri occhi cosa significhi trascorrere la propria vita nella sofferenza mentale.
Quella vera. La storia di Giuseppe Rubino, classe 1955, è emblematica nell’aprire uno scorcio su un tema che mi sta a cuore. La sua famiglia emigrò dalla Calabria per cercare lavoro in Toscana. Il padre era falegname, ma i soldi non bastavano, così Giuseppe finì in collegio. Tra difficoltà di apprendimento e d’integrazione, ha impiegato molto tempo prima di capire cosa fosse una scuola e a cosa servisse. Riusciva a esprimersi solo nello sport. La risposta sul perché di queste complicazioni è arrivata poco tempo dopo: diagnosi di disturbo bipolare. La malattia, ereditata da entrambi i genitori, ha colpito tutta la sua famiglia. Ne soffrono infatti, anche i fratelli e le sorelle, alcuni zii e cugini.
Giuseppe è cresciuto in una terra che lo ha accolto mentre, dentro di lui, diventava sempre più forte quel malessere che gli ha distrutto la vita. Negli anni ’70 venne preso in carico dai servizi di salute mentale. La sofferenza interiore era talmente forte e ingestibile che iniziò a bere. Purtroppo l’alcol è usato, nella maggioranza dei casi, come automedicazione e questo è un aspetto tipico delle malattie bipolari. L’alcol inganna le percezioni, rende ebbri nei momenti di depressione e calma i momenti di maniacalità, ma poi porta inevitabilmente a perdere il controllo. Nonostante tutto Giuseppe, per un po’, ha condotto una vita quasi normale. Ha lavorato in un ente pubblico, si è sposato, ha messo su famiglia ed era talmente bravo nel suo sport preferito, il calcio, che è quasi diventato portiere ufficiale di una famosa squadra di serie B. Purtroppo, un brutto infortunio sul campo gli compromise una spalla. Avrebbe potuto riprendere la sua carriera calcistica se avesse accettato l’operazione, ma non lo fece perché l’intervento gli avrebbe impedito di… andare a bere. Seguirono altre azioni astruse ed eclatanti causate dalla sua malattia e dallo stato abituale di ubriachezza che lo portarono alla tragica separazione dalla moglie e al distacco totale dalle figlie. Da quel momento in poi è diventato un uomo solo e sofferente, in giro per la città: un nuovo terrificante capitolo della sua vita. Ha subito aggressioni, ha tentato il suicidio più volte, ha dormito per strada e poi negli alberghi popolari, ha scontato tre mesi per atti osceni in luogo pubblico (si è spogliato di fronte a una scolaresca). Ma nonostante tutto, la maggioranza dei suoi problemi giudiziali è legata esclusivamente ai festeggiamenti allo stadio: è tifoso appassionatissimo della Fiorentina.
Nel 2012 Giuseppe arriva a Panzano in Chianti perché gli venne suggerita la residenza psichiatrica riabilitativa A. M. Ponticelli, una struttura residenziale con assistenza sanitaria e specialistica per le forme di disturbo mentale grave, caratterizzata da un ambiente familiare, una lunga degenza e un forte legame con il territorio. È degno di nota, e indicativo del lavoro che viene svolto, il fatto che le persone non vengano definite “pazienti”, ma “ospiti”. E da ospite trova qui la sua salvezza, grazie agli approcci e ai tempi differenti dalle cure ricevute precedentemente. In una permanenza che dura ormai da dodici anni, ritrova una sorta di equilibrio. Ha accettato un controllo di tipo finanziario, è confortato perché protetto in un ambiente sicuro, le cure sono più specifiche e personalizzate. Questi importanti cambiamenti lo hanno portato alla ricostruzione dei rapporti con le figlie e l’esser diventato nonno lo ha aiutato nella ricostruzione identitaria.
“In verità, c’è così tanta umanità da lasciare sconvolti.”
Ho visitato la residenza insieme al direttore Andrea Dilillo e a Massimiliano Schitizzi, coordinatore degli operatori, avendo modo di interagire con gli ospiti e con gli addetti ai lavori. È come una grande famiglia che vive in una grande casa, accogliente e calda, in cui ognuno ha il proprio spazio personale. Ma tanti sono anche i luoghi in cui avvengono le attività riabilitative strettamente intese, fino a sconfinare ai laboratori, per esempio, di arteterapia e scrittura, svolti in una bellissima e spaziosa limonaia adiacente alla residenza. È stato svolto un grosso lavoro anche sulla comunità di Panzano e Greve. Gli ospiti, infatti, hanno la possibilità di uscire e vengono reinseriti nel contesto cittadino anche grazie alla rete creata tra i negozianti che hanno imparato ad accoglierli nel modo giusto. Alcuni di loro hanno anche la possibilità di intraprendere un discorso di formazione-lavoro, attualmente in atto con la Coop e con la RSA Rosalibri.
Ora Giuseppe deve affrontare una paura che lo perseguita: per legge, dopo i sessantacinque anni, da disabili psichiatrici si passa ad essere semplicemente anziani, con il conseguente trasferimento in una rsa, senza che ci sia una reale capacità ricettiva e gestionale da parte di queste strutture. Inoltre, in quest’ultimo periodo Giuseppe è molto triste perché da poco è venuta a mancare la sua compagna, anche lei ospite. È stato piantato un ulivo nel luogo in cui andava a telefonarle tutte le mattine, alle 9:20 precise.
Adesso, a quell’ora esatta, tutti i giorni, che ci sia la pioggia, che ci sia un caldo terrificante, va a fumare una sigaretta. Ecco la struttura che ci rende tutti uguali: l’umanità. Quando si affronta la psichiatria, erroneamente le persone credono sia solo un groviglio indecifrabile e inguaribile di cose che non funzionano. In verità, c’è così tanta umanità da lasciare sconvolti. Dobbiamo semplicemente ricordarci che essendo disfunzionale, non sempre c’è consapevolezza di quello che si fa e che si dice: queste persone non commettono errori. Soffrono.