Matilde che si riprende la sua vita

Bipolare, dichiarata inferma di mente, per vent’anni tra carceri, comunità e misure ristrettive

“Tu prova ad avere un mondo nel cuore
E non riesci ad esprimerlo con le parole
E la luce del giorno si divide la piazza
Tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa”

Inizia così una famosa canzone di Fabrizio De André. La follia ha ispirato tragedie, romanzi, dipinti, film, canzoni, ma è un argomento poco approfondito e di difficile gestione.
Sono a Cagliari, invitata in un posto che potrebbe incutere molta tristezza, ma che, invece, nonostante la sua pesante storia alle spalle, ha un’energia particolare, positiva e propositiva. Mi accoglie la presidente, Gisella Trincas, che ha dedicato tutta la sua vita e il suo lavoro al raggiungimento del pieno riconoscimento della dignità e del diritto alla guarigione per le persone con sofferenza mentale.

Siamo nella sede dell’ASARP, l’Associazione Sarda per l’Attuazione della Riforma Psichiatrica (Leggi n°180/78 e n°833/78). Gisella mi accompagna tra gli uffici e mi mostra gli spazi dedicati agli incontri, alle proiezioni e alle attività come i laboratori di scrittura, cucito, relax… Mi pare un ambiente più simile a una casa ospitale che a un luogo di lavoro. Eppure, questi corridoi e queste stanze appartenevano al vecchio manicomio, chiuso nel 1998, trasformato dalla Asl nella “Cittadella della Salute”. Il parco ora è curato e i padiglioni, restaurati, ospitano uffici e ambulatori dell’azienda sanitaria. Gisella mi racconta la sua storia, iniziata decenni fa in seguito a vicissitudini che riguardarono una delle sue sorelle. Immaginava un percorso diverso da quelli fino ad allora adottati. Insistette sulla creazione di una possibilità di vita differente che disattendesse l’adattamento al luogo fisico nel quale venivano solitamente inserite le persone con disagio mentale.
Nel 1986 conobbe Margherita Rossetti, ideatrice e fondatrice di una cooperativa sociale, a Roma, che gestiva una piccola casa-famiglia capace di ospitare un ristretto gruppo di persone, lontano dall’ospedale psichiatrico.
Da quell’incontro nacque un’associazione di familiari per la piena tutela dei diritti delle persone con sofferenza mentale, anche con la realizzazione di progetti di vita in normali abitazioni. Seguirono altre fondamentali collaborazioni, prime tra tutte quella con Franca Ongaro Basaglia, senatrice della Sinistra Indipendente, moglie di Franco Basaglia, e con Maria Grazia Giannicchedda, sociologa, docente universitaria, collaboratrice di Basaglia e presidente della Fondazione omonima.
Erano anni in cui iniziavano a verificarsi le prime inchieste sugli ospedali psichiatrici, cominciava una lenta, ma progressiva, sensibilizzazione dell’opinione pubblica nell’ottica del superamento dell’esistenza dei manicomi e della costruzione di una rete di servizi territoriali sul modello di riferimento del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste.
“L’interesse della politica è sempre stato vacillante. Però, abbiamo ottenuto un grande risultato negli anni del ministero di Rosy Bindi, quando vennero emanati due “Progetti Obiettivo” che decretavano l’organizzazione complessiva dei servizi territoriali di salute mentale e quando, attraverso due Leggi Finanziarie, fu istituito l’obbligo per le regioni di chiudere gli ospedali psichiatrici. Dopo, non c’è più stata la stessa attenzione all’interno del Ministero della Salute. Da allora, di particolare rilevanza è stata la relazione della Commissione di verifica sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, presieduta dal senatore Ignazio Marino, grazie alla quale è stato possibile mettere in luce l’orrore degli ospedali psichiatrici giudiziari e arrivare al loro superamento”.
Gisella affronta i temi legali, politici, sociali.
Senza pause, con dedizione, parla della sua attuale presidenza all’UNASAM, l’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale, e narra storie di cui si è occupata in prima persona, di difficoltà, di ingiustizie, di maltrattamenti.

Ora, da anni, è anche amministratrice di sostegno di Matilde. Per motivi di tutela mi viene chiesto di rispettare la sua privacy, quindi scelgo questo nome, fittizio, di origine germanica, che significa “forte in battaglia, colei che combatte con forza”. Perché è così che la immagino. Matilde è una donna di quarant’anni che non posso incontrare, quindi affido a Gisella il racconto della sua travagliata vicenda. Ha un problema di salute mentale e, poco prima dei vent’anni, in coincidenza con la separazione dei genitori, ha iniziato a fare uso sporadico di cocaina. La sofferenza mentale, a lungo andare, l’ha portata ad assumere comportamenti conflittuali e aggressivi all’interno del proprio nucleo familiare: violenza fisica, improperi, insulti. Le diagnosticarono il disturbo bipolare, ovvero una patologia psichiatrica tra le più invalidanti se non trattata adeguatamente, che può portare a fasi di labilità affettiva, di grave incapacità di controllo delle emozioni e del comportamento, di significative alterazioni dell’umore, con episodi maniacali o depressivi.
Le risposte alle varie “crisi” di Matilde e ai suoi atteggiamenti furono i ricoveri in comunità terapeutiche, con il tragico allontanamento dalla sua abitazione, dai suoi cari e che non portarono al risultato sperato. Negli anni la situazione peggiorò tanto da ricevere una denuncia per maltrattamenti e lesioni aggravate da parte della madre. In attesa di giudizio, venne mandata per svariati mesi in una casa circondariale dove iniziò un nuovo calvario. Fu prosciolta per vizio totale di mente e, dal perito del tribunale, dichiarata socialmente pericolosa. Quindi, le venne applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata con severe prescrizioni, tra cui quella di non poter tornare a casa, ma di doversi sottoporre a un periodo di cure in una REMS (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) o in una comunità terapeutica specifica nella quale è obbligata a rispettare il programma di cura. Mi faccio raccontare questa storia perché è un caso emblema di ciò che succede in Italia, in uno Stato di diritto in cui la società destina alla galera chi ha solo bisogno di assistenza e cure adeguate.

“Matilde ha assistito al suo processo senza alcuna possibilità di difesa, perché quando c’è infermità mentale parziale o totale, la difesa non esiste.”

“Matilde ha assistito al suo processo senza alcuna possibilità di difesa, perché il Codice Penale stabilisce che quando vi è una dichiarazione di infermità mentale parziale o totale, la difesa non esiste. Un sistema inaccettabile: un perito nominato dal tribunale, che non conosce la persona e la sua storia, basa la sua relazione sulla conoscenza diretta del momento, sulle carte processuali e sulla storia clinica. La perizia può durare il tempo di due colloqui di un’ora. Questo significa che può verificarsi una condanna erronea e definitiva. Il magistrato si basa su quella perizia per decidere la misura di sicurezza. È assurdo”.
Le continue fughe dalle comunità e la mancata adesione ai progetti terapeutici portarono a un nuovo girone infernale di trasferimenti e ricoveri. Inoltre, i piccoli reati commessi a causa della sua malattia, come il furto al supermercato e le aggressioni nei confronti delle guardie penitenziarie, causarono nuovi provvedimenti e portarono il magistrato di sorveglianza ad aggravare la misura di sicurezza e confermare la pericolosità sociale. Matilde finì anche in case circondariali e carceri al di fuori della regione natia. Ma nulla sembrava essere utile al suo percorso di recupero. ”Non bisogna scordare, inoltre, che chi ha problemi di salute mentale è soggetto ad allucinazioni, deliri. Tante volte Matilde ha avuto l’idea che il padre fosse morto, che alla sorella fosse capitato qualcosa di brutto e nessuno la informasse. La reazione di disperazione diventa ingestibile, è impossibile fornire rassicurazioni. Il carcere non è il luogo adatto a queste persone. Le carceri che non hanno un centro clinico dell’Azienda Sanitaria ben strutturato non garantiscono le cure, l’assistenza e gli interventi riabilitativi di cui le persone hanno bisogno. È un’esperienza che le danneggia ancora di più”.
Matilde, questa estate, è finalmente tornata nella sua regione di appartenenza e ora dovrebbe intraprendere un percorso terapeutico riabilitativo all’interno di una REMS, in una condizione di sorveglianza e vigilanza, con operatori della salute mentale preparati ad offrire validi percorsi riabilitativi.
“Da qui, non si può allontanare, non può scappare come ha fatto altre volte. Significa che questo luogo deve produrre molto in termini di sostegno, assistenza, cura, riabilitazione, altrimenti si rischia di fallire nuovamente e rischiare che Matilde tenti il suicidio o commetta reati. Una volta che si concluderà la misura di sicurezza, bisognerà che si ragioni su un progetto di vita definito, nella speranza che le perizie dichiarino l’assoluta incompatibilità delle sue condizioni psichiche con il regime carcerario e si possano individuare delle soluzioni in una condizione di libertà vigilata, non dentro una comunità, ma in una normale abitazione. Lei è capace di tenere in ordine una casa, di comprarsi da mangiare, di pensare alla sua igiene personale. Ha bisogno di un sostegno personalizzato che le assicuri una vita piena, un impegno, una realizzazione personale”.

La storia di Matilde apre una serie sconcertante di riflessioni e domande. “Il pensiero culturale imperante sulla malattia mentale è che sia una disfunzione biologica del cervello, inguaribile, incurabile, da tenere sotto controllo solo con i farmaci. Questa visione è in conflitto con il pensiero scientifico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che definisce il disturbo mentale come una condizione che ha origini più complesse, biopsicosociali, e quindi è necessario andare ad analizzare la vita delle persone, studiarne le condizioni generali, comprendere le origini di quel disturbo e porvi rimedio. Invece, i servizi curano le persone prevalentemente con i farmaci e gli operatori sono per lo più medici psichiatri e infermieri. Un servizio di salute mentale moderno dovrebbe avere al suo interno più figure professionali orientate alla ripresa, alla possibile guarigione: lo psicologo, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, l’educatore, il terapista della riabilitazione, magari anche il sociologo. Purtroppo non esistono perché non c’è una cultura diffusa che preveda la cura e il recupero individuale, non si insegna Basaglia nelle università, non si conosce il territorio, non si parte dalla storia personale del paziente”.

In Italia, alcuni anni fa, è stato sperimentato, in alcuni Dipartimenti di Salute Mentale, un progetto di intervento definito “Dialogo Aperto”, un approccio finlandese alle crisi psichiatriche che implica la capacità di ascoltare e adattarsi al contesto specifico, capendo dove nasca il problema della sofferenza mentale, intervenendo e ricostruendo la storia della persona, tentando di escludere o limitare l’intervento terapeutico.
Questo metodo è la filosofia di fondo su cui, con Franco Basaglia, negli anni Settanta, sono stati costruiti i servizi territoriali di salute mentale di Trieste, aperti sulle ventiquattro ore, sette giorni su sette.
“L’esperienza triestina ha mostrato come gli operatori, conoscendo meglio le persone e le situazioni, siano in grado di intervenire in tempo per bloccare il processo di destrutturazione della persona. Nel resto del Paese sono pochi i luoghi in cui la cultura è orientata al rispetto della dignità e dei diritti delle persone. Abbiamo leggi formidabili che vanno verso la cultura del rispetto dei diritti umani, però poi, nella pratica, la cultura dei servizi e la formazione degli operatori spinge alla sorveglianza, al controllo. Gli altri decidono per te dove stare e qualunque altro aspetto della tua vita. Insomma, come a dire che non ti offro quello che ti serve, ma quello che io, sulla base del mio orientamento culturale, delle risorse, in termini di quantità e qualifica degli operatori, di professionalità e in termini finanziari, sono in grado di darti”. È vero, cara Gisella, abbiamo ancora molto da fare rispetto ai bisogni delle persone. E non solo in questo ambito. Immagino Matilde affacciata alla finestra della sua camera. È notte, si vede Giove, netto e luminoso in un cielo di fine agosto ancora carico di stelle. E tu, incompresa Matilde, forte Matilde, ritrova la tua stella e falla brillare forte. Che la notte passi e il giorno ti sia lieve.